Costruire un futuro nello sport per i giovani con autismo

Da 10 anni l’Accademia di calcio integrato si occupa di calcio e autismo. Siamo partiti come una Scuola calcio con 30 bambini di 6-12 anni sino a giungere a oggi in cui sono coinvolti 80 giovani con autismo.

L’attività è sempre stata supportata dalla AS Roma e durante questo periodo formativo e sportivo si è sviluppato un nuovo progetto, finanziato dall’8×1000 della Chiesa Valdese,  per permettere a cinque ragazzi over18 di ampliare il loro percorso non solo come calciatori ma di realizzare il loro desiderio di diventare Mister, grazie a un programma di formazione online proposto dalla Federazione italiana sport paralimpici degli intellettivo relazionali (FISDIR) che fornisce la qualifica di assistente multidisciplinare. A questa esperienza è seguita una borsa lavoro per la durata della stagione agonistica che gli ha permesso di svolgere questo ruolo affiancando gli allenatori in campo.

La storia di questi ragazzi è diventata un podcast “Chiamami Mister” di tre puntate realizzato da Aligi Pontani e Giuseppe Smorto con la voce narrante di Daniela Di Giusto.

Per questi ragazzi, come dice Luca nel podcast: “Essere diventato allenatore, per me e per le persone che mi sono vicine, è un grande orgoglio. Un grandissimo passo che ora devo proseguire” o come ripete Lollo “Ora aspetto di aiutare i piccoli”.  Ascoltare questo podcast permette a tutti di capire che per i giovani con autismo si può costruire un mondo fatto di un futuro positivo e concreto che va oltre quei limiti che siamo soliti attribuirgli.

Fa bene alle nostre anime, ascoltatelo: https://open.spotify.com/show/4dPqPNY0nKynyeM7PFKc3c?si=5HSBTwvHSTWSCnY61C5BTw&nd=1&dlsi=21fe79cd1b0f4526

L’approccio psicologico di Pep Guardiola

Pep Guardiola ha raggiunto le 1000 panchine ed è considerato e si considera il migliore allenatore di calcio. Una storia iniziata nel 2007 quando ha preso la guida della seconda squadra del Barcellona,  vincendo 12 campionati, 14 coppe nazionali e 3 Champions League.

Di seguito riporto il suo approccio psicologico al ruolo di allenatore che ho scritto per il libro “Palla al centro. La psicologia applicata al calcio“.

Un leader si riconosce anche dalle frasi che dice ai suoi giocatori. Guardiola, quando allena una squadra spiega: “Speriamo di commettere subito parecchi errori così impariamo prima”. Non avere paura di sbagliare è l’atteggiamento di chi ha una mentalità vincente, perché ciò che è veramente importante non è inseguire la prestazione perfetta ma quanto si reagisce velocemente agli errori.

Soddisfare questa esigenza di miglioramento attraverso la conoscenza degli errori è stato un punto fermo di Guardiola già da calciatore, sempre alla ricerca di modi per rendere non solo se stesso ma anche la squadra migliore. Implacabile nella ricerca del miglioramento, non appare sfacciato e non vuole sembrare come non è. Il suo obiettivo è quello di diventare il miglior Pep Guardiola che può essere e, fin dall’inizio, ha voluto migliorare nella comprensione della chimica di squadra.

Per realizzare questo progetto ha fondato la sua filosofia di gioco sulle idee di Johan Cruyff.  Ha spesso affermato che è stato il suo più grande idolo e mentore, consapevole della necessità di possesso, sia per il recupero e il mantenimento, due ideali che costituiscono il fondamento della sua filosofia di gioco. Inoltre, ha centrato il suo lavoro sull’importanza di avere valori validi da trasmettere alla squadra fondati sul sacrificio, la responsabilità, il rispetto, l’onestà e il lavoro di squadra. A conferma di ciò, quando iniziò ad allenare il Barcellona, cominciò il suo primo allenamento dicendo che allenare il Barcellona era un onore assoluto, ma subito dopo parlò della necessità di ristabilire l’ordine e la disciplina e della necessità di essere più professionali. Lui stesso è il primo a fornire questo esempio di correttezza, non a caso arriva per primo agli allenamenti e va via per ultimo.

La comunicazione interna è al servizio delle necessità dei giocatori e si consiglia regolarmente con lo staff.

Spende molto tempo a studiare con scrupolo l’avversario: “Tutto ciò che faccio è guardare il filmato dei nostri avversari e quindi provare a capire come demolirli”. Questa proattività spinge Guardiola a conoscere non solo la propria squadra, ma anche gli avversari. Di conseguenza, ogni calciatore della squadra deve essere preparato a sentirsi continuamente osservato. A quel tempo, nel Barcellona, Deco e Ronaldinho non avevano questo atteggiamento e furono sacrificati per il bene della squadra. Il suo approccio al gioco al Barcellona è bene espresso da queste parole:

“Io non voglio che tutti cerchino di dribblare come Leo Messi, bisogna passare la palla, passarla e passarla di nuovo…  Passare, muoversi bene, passare ancora una volta, passare, passare, e passare … Voglio che ogni mossa sia intelligente, ogni passaggio preciso, è così che facciamo la differenza dal resto delle squadre, è tutto quello che voglio vedere”. 

Conte parla tra le righe: un club europeo nasce dai dettagli

In questi giorni Antonio Conte ha più volte fatto riferimento alla crescita del club, alla necessità di assumere una dimensione più “europea” (anche se non lo ha mai detto apertamente). Per ben due volte ha citato lo staff medico e quello fisioterapico, aggiungendo anche: “probabilmente devo crescere anche io per preparare una partita ogni tre giorni”.

Il comportamento comunicativo di Antonio Conte può essere letto come una forma di leadership anticipatoria, in cui l’allenatore non parla solo del presente ma prepara l’ambiente – squadra, società, tifosi – a una certa direzione evolutiva. Psicologicamente, Conte utilizza spesso una comunicazione allusiva per due ragioni: evitare lo scontro diretto con la dirigenza e allo stesso tempo far passare con forza il proprio messaggio.

Conte è un tecnico che costruisce la propria autorevolezza sull’idea di controllo dei dettagli: quando cita lo staff medico o fisioterapico non lo fa mai per caso, ma per ricordare che la performance non dipende solo da lui o dai giocatori, bensì da un sistema complesso in cui ogni anello deve funzionare. È un modo per creare pressione produttiva su tutta la struttura del club, evidenziando impliciti margini di miglioramento senza accusare esplicitamente nessuno.

Quando aggiunge che “deve crescere anche lui”, introduce un elemento chiave: la legittimazione del messaggio attraverso l’autocritica. Psicologicamente è una strategia raffinata: ammettere un proprio limite abbassa le difese altrui e rende più accettabili le critiche velate.

Il suo modo di comunicare è anche una forma di gestione delle aspettative: Conte prepara l’ambiente alla fatica di un percorso che non è solo tecnico, ma culturale e organizzativo. Infine, il suo stile richiama la dinamica tipica dei leader molto esigenti: alternare chiarezza e ambiguità per mantenere alta l’attenzione, motivando ma anche mettendo alla prova la capacità del club di cogliere i suoi messaggi tra le righe.

Mettere la persona la primo posto

Il suicidio di Marshawn Kneeland, 24 anni, giocatore dei Dallas Cowboys mette in evidenza, ancora una volta dopo una tragedia, la necessità di considerare prima la persona e solo dopo le sue prestazioni.

Nel mondo dello sport, l’espressione “put people first” assume un significato particolarmente potente ma poco considerato. Significa pensare all’atleta, allenatore o tifoso prima del risultato, del trofeo o della performance. In altre parole, mettere la crescita umana e il benessere psicofisico al centro dell’esperienza sportiva.

Applicare in modo sistematico questo principio nello sport porterebbe numerosi benefici. Prima di tutto, migliorerebbe la salute mentale degli atleti: riducendone lo stress, il burnout e la paura di fallire, favorendo una motivazione più autentica. Quando un ambiente sportivo valorizza la persona e non solo la prestazione, gli atleti si sentono più sostenuti, più liberi di esprimersi e quindi più performanti.

Un approccio “people first” favorirebbe anche la coesione del gruppo. Le squadre che si fondano su rispetto, ascolto e fiducia reciproca sviluppano una forza collettiva che va oltre il talento individuale. L’empatia diventa la vera chiave del successo.

Infine, questo modo di vivere lo sport aiuterebbe a diffondere modelli positivi per le nuove generazioni: giovani che imparano che vincere è importante, ma che la dignità, la collaborazione e la crescita personale valgono di più.

In sintesi, “put people first” nello sport non significa rinunciare alla vittoria, ma costruire un percorso in cui il trionfo più grande è diventare persone migliori.

Dal giudizio alla comprensione: ripensare l’apprendimento e l’errore

Nella tradizione scolastica, l’insegnamento è stato considerato come un’arte del tutto originale e l’insegnante collocato in una posizione piuttosto ambigua, a metà tra l’artista e l’artigiano: culturalmente eclettico, ricco di iniziativa, indipendente nelle scelte didattiche.

Oggi, nel mondo dell’istruzione, è in atto una vera e propria involuzione pedagogica, favorita anche da spinte tecnologiche e metodologiche eccessivamente uniformanti, dove l’alunno fatica a riconoscersi come protagonista del proprio percorso formativo e il docente sembra aver smarrito la propria funzione di “accompagnatore” nella costruzione delle competenze.

La complessità del processo di insegnamento-apprendimento, in cui l’interazione tra docente e discente rappresenta il fondamento su cui basare stili e strategie metodologiche, può produrre risultati positivi solo se liberata da pregiudizi e dogmatismi valutativi. Come afferma Sánchez Bañuelos«la validità di un progetto didattico non si misura su alcun dogmatismo dottrinario aprioristico, ma sono i risultati educativi che a posteriori ne determinano il reale valore».

In questa prospettiva si inserisce la riflessione di José Mourinho, che ha dichiarato: «Un allenatore deve essere tutto: un tattico, motivatore, leader, metodologo, psicologo». Tale affermazione, al di là del contesto sportivo, esprime una concezione dell’educatore come figura poliedrica, capace di integrare competenze diverse e di adattarsi alle specificità di ciascun individuo. Un suo docente universitario di filosofia gli ricordò infatti che «un allenatore che sa solo di calcio non è di livello superiore», evidenziando come la competenza tecnica, se isolata, non basti a definire la qualità di un professionista.

Un’idea affine emerge nel pensiero di Benjamin S. Bloom, secondo il quale «indipendentemente da ciò che s’impara, quasi tutte le persone possono imparare, se fornite dei giusti antecedenti e condizioni adeguate di apprendimento».
Entrambe le prospettive convergono sull’importanza del contesto e delle condizioni di crescita: per Mourinho, l’efficacia dell’educatore dipende dalla sua capacità di coniugare metodo, empatia e leadership mentre per Bloom, l’apprendimento è possibile per tutti, purché il sistema fornisca strumenti e ambienti adeguati.
Tuttavia, mentre Bloom denuncia i limiti strutturali del sistema scolastico e le disuguaglianze socioeconomiche che ostacolano l’uguaglianza delle opportunità, Mourinho richiama la responsabilità personale dell’insegnante o dell’allenatore nel saper leggere la complessità umana e formarsi in modo continuo. In entrambi i casi, la centralità dell’allievo e la qualità della relazione educativa restano elementi imprescindibili.

Affermare che un alunno “non capisce”, come talvolta si sente dire nei consigli di classe, implica un giudizio statico e riduttivo: presuppone che la difficoltà di comprensione sia un tratto permanente, anziché un ostacolo temporaneo da analizzare e superare.
La pedagogia, invece, parte dal principio che ogni alunno può apprendere, se sostenuto da metodologie adeguate, tempi personalizzati e un clima di fiducia reciproca. Quando un discente non comprende, le cause possono risiedere nel metodo, nel linguaggio, nel contesto o in fattori emotivi e motivazionali: non nella sua incapacità.

L’apprendimento è sempre una relazione. Se emerge una difficoltà, il docente deve interrogarsi — sto utilizzando il metodo giusto? — e riconsiderare strumenti, tempi e strategie. Ogni studente possiede un proprio stile cognitivo e modalità diverse di elaborare le informazioni. Dire “non capisce” significa ignorare questa diversità, che è invece il punto di partenza per sviluppare competenze autentiche.

L’etichettamento produce effetti negativi duraturi: mina la motivazione, riduce l’autoefficacia e alimenta un circolo vizioso d’insuccesso. La pedagogia, al contrario, richiede osservazione analitica, valutazione formativa e interventi mirati.

Tale attenzione diventa ancor più necessaria nei confronti degli alunni di origine straniera che non hanno ancora piena padronanza della lingua italiana. Lo stesso è accaduto negli anni Sessanta, quando i figli delle famiglie provenienti dal Sud Italia frequentavano le scuole del Nord, vivendo forme simili di esclusione linguistica e culturale. In tal senso, la scuola italiana non ha mai realmente superato queste dinamiche, dimostrando una persistente difficoltà nell’integrare pienamente la diversità come valore educativo.

La normativa scolastica italiana prevede che la valutazione tenga conto del percorso linguistico e di inserimento, non soltanto dei risultati assoluti. Se uno studente comprende i concetti ma fatica a esprimerli linguisticamente, la scuola deve aiutarlo a colmare il divario, non penalizzarlo. Confondere la conoscenza dei contenuti con la competenza linguistica significa tradire la funzione inclusiva dell’istruzione.

Personalizzare l’insegnamento, adattare gli obiettivi e diversificare gli strumenti di valutazione sono condizioni imprescindibili per garantire equità e rispetto dei principi costituzionali. Bocciare uno studente che ha mostrato impegno e progressi, ma che incontra difficoltà linguistiche, contraddice la finalità educativa della scuola, che deve offrire pari opportunità di successo formativo.

L’istituzione scolastica, in quanto comunità educativa, è chiamata a predisporre strumenti di supporto linguistico e didattico — glossari, prove semplificate, tutoraggio, attività di potenziamento — che permettano agli studenti di dimostrare le proprie reali competenze disciplinari.
Ogni volta che il docente pianifica un intervento educativo, ha il dovere di riflettere con rigore su mezzi, contenuti e metodi, riconoscendo la responsabilità condivisa del processo formativo.

In caso contrario, entrambi gli attori — insegnante e alunno — rischiano di perdere qualcosa, e la mancanza di apertura al cambiamento istituzionale e curricolare non farà che ampliare le disuguaglianze, alimentando nuove forme di disagio e di ingiustizia sociale.

Chi può e vuole… adesso.

Massimo Oliveri e Alberto Cei

Noi contro il mondo: il potere e i limiti della mentalità di Conte

La cosiddetta sindrome di accerchiamento è un atteggiamento psicologico spesso adottato da allenatori carismatici come Antonio Conte. Consiste nel percepire — o far percepire — a sé stessi e al gruppo di essere sotto assedio: dai media, dagli avversari o persino dalla società sportiva. È una strategia di motivazione basata sull’idea che, sentendosi minacciati, si rafforzi l’identità collettiva e la voglia di reagire. L’allenatore, in questo caso, diventa il leader che protegge il gruppo da un “mondo esterno” ostile.

Il sentirsi accerchiato può generare una forza straordinaria: spinge a superare i propri limiti, a lavorare con maggiore intensità e a mettere da parte gli ego personali per un obiettivo comune. Molti tecnici alimentano volutamente l’idea del nemico per tenere alta la concentrazione e creare un “noi contro tutti” che cementa la squadra.

Tuttavia, questa visione del calcio differisce profondamente da quella che lo intende come condivisione di un progetto, fondato sulla collaborazione, sulla fiducia reciproca e sulla crescita collettiva. La sindrome di accerchiamento si basa sul conflitto e sulla reazione, mentre il calcio come progetto condiviso si fonda sulla costruzione e sull’evoluzione comune. Nel primo caso, l’energia nasce dalla difesa; nel secondo, dalla partecipazione.

Il rischio è che l’ossessione per i nemici esterni riduca la capacità di creare un’identità positiva e duratura, fatta di idee di gioco e senso di appartenenza più ampio. La coesione nata dal sentirsi accerchiati è forte ma fragile: si regge sulla contrapposizione. Quella costruita sulla condivisione è più lenta ma più stabile. Non a caso, Conte — pur spesso vincente — tende a restare poco nei club che allena: la tensione che alimenta il suo metodo, col tempo, diventa insostenibile per l’ambiente. È un approccio che brucia energie, genera risultati immediati, ma difficilmente crea cicli lunghi o serenità.

 

Il sogno olimpico di Sofia Goggia: un obiettivo scritto 20 anni fa

Divertente che oggi su Instagram Sofia Goggia per ricordare a tutti il suo obiettivo di vincere l’oro alla e prossime Olimpiadi di Cortina, abbia montato sotto una sua foro la scheda degli obiettivi compilata più di 20 anni fa in cui scriveva che era proprio questo il sogno della sua carriera agonistica e che questa scheda è tratta dal mio libro del 1987  intitolato “Mental Training”.

 

Allenatori-esordienti in squadre top: una scelta tra fascino e illusione

Nel calcio di oggi le mode cambiano in fretta e una delle più diffuse è quella di affidare la panchina a un ex campione un volto conosciuto qualcuno che rappresenti la storia del club e che possa riportare entusiasmo e appartenenza dopo stagioni difficili da Seedorf a Pirlo passando per Thiago Motta e Tudor alla Juventus negli ultimi anni in tanti hanno provato questa strada convinti che il carisma potesse bastare a ricostruire un ciclo.

All’inizio funziona quasi sempre, la squadra reagisce, l’ambiente si accende, lo spogliatoio ritrova stimoli e il nuovo tecnico viene accolto come un profeta. L’effetto novità è forte, le idee sono semplici, la comunicazione diretta e il gruppo si compatta i risultati arrivano e sembra l’inizio di una nuova era ma il calcio è crudele e la magia spesso svanisce in fretta.

Dopo qualche mese arrivano le prime difficoltà e lì si vede la differenza tra chi è pronto e chi no, perché allenare non è solo mettere in campo idee, è gestire tensioni, crisi, infortuni e spogliatoi complicati; è capire i momenti e prendere decisioni impopolari e serve esperienza quella che un esordiente di solito non ha.  Molti ex campioni scoprono che il rispetto guadagnato da giocatori non basta per tenere insieme un gruppo quando i risultati non arrivano

A volte manca anche una base solida, un metodo vero, si cerca d’imitare i grandi modelli Guardiola o Klopp ma senza il tempo e la struttura per farlo davvero e così l’entusiasmo iniziale lascia spazio alla confusione, il gioco si perde, i risultati calano e la società che all’inizio voleva ricominciare si ritrova punto e a capo.

Eppure ci sono esempi che fanno sperare Arteta con l’Arsenal, Xabi Alonso con il Leverkusen,  Guardiola ai suoi inizi con il Barcellona;  storie in cui la scommessa ha funzionato perché c’era un progetto solido, una dirigenza forte, uno staff preparato e soprattutto pazienza e fiducia nella crescita del tecnico e nel suo modo di vedere il calcio

Affidarsi a un ex campione può essere una scelta romantica e affascinante ma non può diventare una scorciatoia, serve metodo, equilibrio e la forza di resistere ai momenti difficili altrimenti si rischia di vivere un sogno che dura pochi mesi, il carisma e la conoscenza dello spogliatoio sono un punto di partenza ma senza una visione e un lavoro quotidiano restano solo belle parole

Il calcio moderno corre veloce e chiede risultati subito ma le vere rivoluzioni nascono dal tempo e dalle idee non dall’effetto nostalgia, scegliere un allenatore giovane può essere la strada giusta ma solo se dietro c’è una società che crede davvero nel futuro non solo nel nome scritto sulla maglia.

Quando l’errore diventa colpa: l’approccio attuale non forma gli arbitri e non aiuta le squadre

Il designatore degli arbitri Gianluca Rocchi, in seguito agli errori commessi dai giudici di gara  nelle ultime partite, ha dichiarato: “Non vogliamo punire nessuno, ma capire la logica dell’errore. Se è comprensibile, non c’è problema; se è illogico o nasce da protagonismo, allora sì, fermiamo l’arbitro. Il nostro compito è fornire il miglior servizio alle squadre”. Parole ragionevoli, ma che rivelano un’impostazione più disciplinare che formativa, che rischia di non migliorare gli arbitri e tantomeno il servizio alle squadre.

Affermare che si vuole capire la logica dell’errore sembra un atteggiamento aperto. Tuttavia, senza un processo strutturato di analisi, confronto e revisione, resta una semplice valutazione retrospettiva: l’errore viene valutato più o meno accettabile  ma non si aiuta l’arbitro a crescere. Ad alto livello, la formazione arbitrale moderna dovrebbe essere continuativa e concentrarsi sulle ragioni dell’errore — pressioni, posizionamento, lettura del gioco, comunicazione col VAR — e su come evitare che si ripeta.

Inoltre, quando si afferma che un errore “illogico o da protagonismo” porta a fermare l’arbitro, il messaggio è chiaro: chi sbaglia, rischia. Questo non crea cultura, ma ansia da prestazione. L’arbitro diventa più attento a non sbagliare che a interpretare correttamente. Ne derivano decisioni più prudenti, meno autentiche, più condizionate dalla paura del giudizio che dal senso del gioco.

Servire le squadre significa migliorare la qualità media, non fermare i “colpevoli”. Il capo degli arbitri dice di voler offrire “il miglior servizio alle squadre”. Ma fermare chi sbaglia non migliora la qualità complessiva del gruppo arbitrale, così come cambiare un calciatore dopo un errore non migliora la squadra. Le squadre hanno bisogno di arbitri competenti, coerenti e sereni, non di una rotazione continua di fischietti timorosi di perdere la designazione e i loro guadagni.

Il mondo arbitrale italiano è ricco di professionalità, ma spesso schiacciato da una cultura della colpa. Servirebbe invece un cambio di paradigma, che parta dall’analisi sistematica delle decisioni, non per giudicare, ma per apprendere; promuovere la discussione tecnica e la condivisione dei criteri; valorizzando in questo modo la continuità e la trasparenza nel processo di valutazione. Solo così si costruisce un sistema realmente formativo per le prestazioni arbitrali di alto livello, dove l’arbitro non teme di essere fermato ma si sente stimolato a migliorare.

 

Paolo Casarin: Vita e pensieri di un arbitro

Paolo Casarin ha pubblicato la lunga storia della sua vita come arbitro, capo degli arbitri italiani e dirigente di livello mondiale nel mondo del calcio. Il libro s’intitola Vita e pensieri di un arbitro – Sessant’anni dentro e fuori il campo di calcio”, ed è pubblicato da Rizzoli con la prefazione di Gianni Mura. Casarin ci porta dentro la sua vita, dalle prime partite arbitrate sui campetti polverosi fino ai palcoscenici internazionali di FIFA e UEFA. Un racconto personale e sincero che è anche la storia di un calcio che non esiste più: quello senza VAR, senza replay, ma con passione, rispetto e – a volte – isolamento. Un libro diretto, appassionato, pieno di aneddoti, visione e riflessioni su un ruolo centrale e troppo spesso frainteso.

Casarin fornisce una definizione del calcio “inteso anche come la ricerca del modo più efficace per vincere una sfida: due gruppi di giocatori in contrapposizione  fra loro, guidati da due maestri a bordo campo e chiamati a ottenere una momentanea superiorità” e spiega che usando una terminologia introdotta da Piaget afferma che ” nel calcio in quanto gioco prevalgono i processi di assimilazione” giocare secondo le proprie capacità ma nel “calco in quanto spettacoloso prevalgono i processi di accomodamento, dal momento che il giocatore è costretto a modificare continuamente se stesso per contribuire alle necessità della squadra”.

La sua vita nel calcio è stata un’esperienza senza fine, un’esperienza esistenziale vissuta come persona competente e consapevole del valore del ruolo e non da arbitro autoritario che vuole imporre la sua autorità nel calcio. Nelle riunioni svolte con gli arbitri da designatore ha continuato a riproporre questo approccio alla prestazione arbitrale dicendo sempre che l’arbitro era un invitato delle squadre e che ognuno dove sentirsi responsabile del suo ruolo, anche perchè la domenica seguente un altro loro collega sarebbe sceso sullo stesso campo e doveva trovare un ambiente favorevole a causa di quanto era successo nelle partite precedenti.

Grazie a questo approccio positivo verso la componente psicologica dell’arbitraggio ho potuto lavorare con Paolo Casarin per tutti gli anni in cui è stato designatore degli arbitri di Serie A. Al lavoro svolto insieme ha voluto dedicare dedicare un capitolo di questo libro dal titolo “L’area psicologica dell’attività arbitrale” in cui descrive quanto fatto in quegli anni. Abbiamo così introdotto la preparazione psicologia alla partita, abbiamo valutato le capacità attentive e interpersonali degli arbitri e altro ancora. Personalmente, quegli anni fanno parte dei momenti migliori della mia vita professionale ed è stato un periodo, lungo, ma irripetibile perchè al termine dell’esperienza di Casarin in questo ruolo si è conclusa  anche la mia collaborazione e da allora mai nessun altro si è occupato di quest aspetti della vita arbitrale.